Il discrimine tra attività istituzionale e commerciale, ed il conseguente regime fiscale applicabile agli Enti del Terzo Settore, costituisce una delle questioni più dibattute legate all’opera di Riforma. Nonostante il momento storico abbia ben altre priorità, con il coronavirus nei pensieri di tutti, ogni giorno che passa avvicina al termine per le modifiche statutarie (da poco prorogato al 31 ottobre 2020 vista la delicatezza del periodo), e l’incertezza sul regime fiscale di ETS, APS ed ODV getta più di un operatore nello sconforto.
Al di là delle considerazioni teoriche, la questione rischia di avere ricadute di carattere sostanziale, viste le difficoltà di interpretare, a fini applicativi, una previsione normativa a dir poco complessa, in grado di mettere in dubbio il parere d’approvazione della Commissione Europea e l’entrata in funzione del Registro Unico.
Cerchiamo, quindi, di comprendere i passaggi chiave della disciplina e le logiche legate all’attuazione.
Attività non commerciali per gli Enti del Terzo Settore: quali sono?
L’articolo 79 comma 2 del D. Lgs. 117/2017 stabilisce i criteri per la qualificazione delle attività svolte dall’Ente, specificando che sono catalogabili come non commerciali “le attività di interesse generale di cui all’articolo 5”, quando:
– “sono svolte a titolo gratuito”;
– dietro pagamento di un corrispettivo non superiore ai “costi effettivi” (in sostituzione del riferimento ai “costi di diretta imputazione” di cui all’art. 143 del TUIR), tenuto conto dei contributi delle pubbliche amministrazioni qualora si tratti di attività convenzionate, e “salvo eventuali importi di partecipazione alla spesa previsti dall’ordinamento”.
Al comma 2 bis la norma scende ulteriormente nel dettaglio, aggiungendo che “le attività di cui al comma 2 si considerano non commerciali” se gli incassi non superano “di oltre il 5 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi”.
Quali sono le entrate non commerciali per definizione per gli Enti del Terzo Settore?
Fermo restando la non commercialità delle attività di interesse generale alle condizioni di cui sopra, la disposizione inserisce una specifica ad hoc, stabilendo espressamente la detassazione per:
– attività di “ricerca scientifica di particolare interesse sociale”, che possono essere svolte sia da Enti del Terzo Settore aventi tali scopi, a condizione che i profitti vengano reimpiegati nelle attività stesse e condividendo gratuitamente i dati acquisiti, senza “accesso preferenziale” ai risultati della ricerca da parte di privati, sia tramite loro affidamento ad istituti universitari “e altri organismi di ricerca”;
– servizi sociali, “prestazioni sanitarie” e “socio-sanitarie”, resi “da fondazioni delle ex istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, sempre con obbligo di reinvestimento degli utili e senza compensi “a favore degli organi amministrativi”.
Il comma 4 lascia fuori dalla formazione del reddito degli Enti del Terzo Settore:
– i fondi di “raccolte pubbliche” occasionali;
– “i contributi e gli apporti” provenienti dalle pubbliche amministrazioni per le attività convenzionate.
Ai proventi non commerciali, si aggiungono altresì:
– i contributi;
– le sovvenzioni;
– le liberalità;
– le quote associative;
– le entrate assimiliate alle precedenti.
Enti del Terzo Settore con qualifica commerciale
Dopo aver suddiviso le entrate degli Enti del Terzo Settore a seconda della natura dell’attività, l’articolo 79 pone l’accento sulla loro qualificazione, precisando che devono considerarsi non commerciali gli Enti “che svolgono in via esclusiva o prevalente” le attività di interesse generale, secondo i parametri delineati.
Sul versante opposto, sono invece commerciali gli Enti del Terzo Settore che esercitano le attività di cui all’articolo 5 “in forma d’impresa” (prescindendo dal costo effettivo) nonché le attività diverse definite dall’articolo 6 (“a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale, secondo criteri e limiti definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze“), qualora i proventi di tali attività “superano, nel medesimo periodo d’imposta, le entrate derivanti da attività non commerciali, … tenuto conto altresì del valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività svolte con modalità non commerciali”.
Previsioni specifiche per associazioni
Fermo restando il regime fiscale per ODV e APS disciplinato dagli articoli 84 e 85 del Codice del Terzo settore, la disposizione in analisi classifica come decommercializzata, l’attività svolta dalle associazioni verso i soci (e loro familiari e conviventi), secondo le finalità di cui all’oggetto sociale.
Conseguentemente, le somme incassate dai propri iscritti a titolo di quote associative o contributi restano fuori dalla determinazione forfettaria della base imponibile.
Sono, invece, qualificabili come commerciali, anche se indirizzate agli associati, “le cessioni di beni e le prestazioni di servizi … verso pagamento di corrispettivi specifici, compresi i contributi e le quote supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni alle quali danno diritto”.
Quali Enti del Terzo Settore sono coinvolti?
Escluse le imprese sociali, le disposizioni di cui al Titolo X si applicano a tutti gli Enti del Terzo Settore.
Le conseguenze dell’applicazione
Il superamento dei canoni di commercialità dà luogo a due risvolti paralleli:
– l’organizzazione conserva la posizione di Ente del Terzo Settore, ma assume la veste di ETS commerciale “a partire dal periodo d’imposta in cui l’ente assume natura commerciale”;
– il mantenimento della qualifica di Ente del Terzo Settore porta con sé la salvaguardia dell’iscrizione al RUNTS, ma con tutte le conseguenze, anche (e soprattutto) di carattere fiscale, legate alla natura commerciale.
Insomma, semplice a dirsi, molto meno a farsi!
Questo approfondimento è stato realizzato in collaborazione con la Dott.ssa Mimma Sgrò.
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